I. Pelgreffi (a cura di), Il pensiero e il suo schermo

Se la filosofia ha spesso riflettuto sul cinema, nutrendo il proprio farsi con i concetti cinematografici o teorizzando molteplici possibilità di reciprocità e relazione di sguardo, non è invece allo stesso modo consueto un affondo sulle possibilità che si (s)chiudono al filosofo attraverso lo schermo, ossia, sui modi in cui la filosofia stessa viene presentata, ma anche presentificata, in presenza di un dispositivo ottico di un certo tipo. Ed è proprio la molteplice declinazione di questo concetto di presenza ad essere al centro del volume curato da Igor Pelgreffi, che ha il pregio di riunire sei pensieri attorno al preciso interrogativo riguardante ciò che accade alla filosofia quando gli schermi (e non solo quelli televisivi e cinematografici, ma anche tutti gli schermi smart delle tecnologie di uso quotidiano – computer, tablet, cellulari) si mettono in posizione di interferenza con essa.

In effetti, chiarisce subito il curatore, e a dispetto di quanto potrebbe sembrare dal titolo, con questo libro non ci si propone tanto di indagare le forme che assume il rapporto tra filosofia e cinema, o tra cinema e pensiero, quanto piuttosto di verificare se e come è ancora possibile che si possa parlare di filosofia quando il mezzo della sua esposizione diviene un documentario, una video-intervista, un sito internet, un seminario on-line, o qualsiasi traccia registrata in grado di raggiungere lo schermo touch del proprio telefonino.
Se l’analisi prende avvio dall’ormai classica espressione di sgomento derridiana davanti alla propria immagine sullo schermo, nel percorso che si delinea attraverso i saggi raccolti l’accento si sposta a più riprese dal corpo al corpus del filosofo. Si potrebbe quasi individuare una linea di progressiva “spersonalizzazione” all’interno degli interventi, che da Daniela Angelucci, la quale si sofferma in un’indagine d’impronta psicoanalitica sulle relazioni tra soggetto, (auto)immagini, e media ottici, in primis lo specchio, attraversa tutto il volume, fino al saggio conclusivo di Paolo Vignola, la cui prospettiva sul medium-schermo è volta ad indagarne soprattutto i frangenti di compromissione con le (nuove) società di controllo di stampo capitalistico. Possiamo così vedere come, di volta in volta, sono presi in esame lo scollamento tra soggettività e autorialità in presenza di un diaframma-schermo, le modificazioni in tal modo provocate sia nell’ordine dell’apparire che nell’ordine del pensare, il divenire multimediale delle testualità e la conseguente ibridazione di linguaggi, tanto da mettere in dubbio di cosa e di quanto si possa dire documento; fino appunto a concludere, dato per acquisito il carattere di dispositivo che alcuni schermi assumono, con un’analisi e una critica del potere che essi possono arrivare ad esercitare nel momento massimo della loro pervasività. In ogni caso, lungi dal limitarsi a una dichiarazione di sfiducia nei confronti delle tecnologie, e nemmeno al monito dei pericoli che, in particolare per il fare filosofia, esse possono generare, ciò che i diversi pensatori sembrano condividere e mettere in primo piano è il riconoscimento di una sorta di ambivalenza farmacologica (da pharmakon, che in greco è allo stesso tempo rimedio e veleno) dello schermo, che al contempo impedisce e permette, separa e protegge. Quest’ultimo aspetto è evidente nel testo di Vincenzo Cuomo (Le (di)stanze del filosofo. La memoria, la voce, lo schermo), dove lo schermo è considerato in particolare nella sua funzione di schermatura, e diviene metafora della di-stanza del filosofo, luogo di una topologia che descrive la capacità di posizionarsi/deposizionarsi tipica del pensatore, così come la sua necessità di appartarsi. La “stanza” del filosofo, sembra dire Cuomo, si comporta come l’omonima figura strutturale dei componimenti poetici, fungendo da elemento ritmico che passa dall’essere tramite al divenire figura della ripetizione nella sua differenziazione, ma anche, in questo caso, della différance del significato. Fulcro di quel passaggio in cui ci si appropria del vissuto per declinarlo in parola, essa genera nella sua occorrenza una continua scansione tra inclusione e distanza, dove la permeabilità del dentro-fuori costituisce la sua stessa condizione di possibilità. Ma se tale permeabilità diviene trasparenza, e l’inclusività viene estremizzata dalla presenza evidente (del filosofo), ecco che il meccanismo della stanza si rompe, e la potenza del discorso, già dimidiata dal suo essere (sempre) qui e (sempre) ora, viene infranta dalla retorica mediale, che rischia di far inabissare il testo nelle sue pratiche d’uso, ossia nella selva di commenti e citazioni che lo ricoprono.
In effetti, se è vero, come afferma il pluricitato Friedrich Kittler, che sono i media a stabilire la forma e il valore della posizione di ciascuno, e se dunque il filosofo si trova ad un certo punto soggetto alla macchina testuale in cui decide di entrare, viene da chiedersi quale sia in questi casi lo spazio residuo per le operazioni di soggettivazione, di individuazione, che dovrebbero essere proprie di ogni discorso filosofico, e se non ci si trovi invece in presenza di un’operazione assoggettante il filosofo stesso, di un suo divenire oggetto rappresentato nell’istante stesso del proprio apparire, e dunque merce/feticcio da consumo esposta all’interno di una vetrina mediale. O addirittura, se l’eccesso di esposizione e di evidenza derivato dalla mediatizzazione della filosofia, altrimenti solita a un certo grado di isolamento, non porti al suo appiattimento all’apparenza del filosofo, ai suoi tic e alla sua fisicità. È in questo senso che Daniele Dottorini si chiede cosa significhi “filmare il corpo di un filosofo, di colui che spesso fa della sottrazione della propria corporeità, della propria soggettività, il presupposto di origine e di sviluppo di un pensiero che si vuole anonimo, non individualizzato perché universale”, e “cosa rimane del pensiero quando lo sguardo cinematografico lo costringe a incarnarsi in quel corpo, in quell’individuo”. Il suo La vita sullo schermo. Il cinema di Astra Taylor, riflette dunque sulle potenzialità di un cinema che decide di lavorare non tanto sulla filosofia, ma sui filosofi stessi, in quanto corpo e voce, aprendo allo stesso tempo sulle possibilità del corpo-parola del filosofo di incidere a sua volta sulla forma cinematografica, costringendola a riflettere su di sé. L’esempio scelto dall’autore, quello della documentarista canadese-americana Astra Taylor, convoca però un cinema che non si mette affatto al servizio del discorso, ma che anzi lo depista, volendo mostrare il filosofo, prima di tutto nel suo essere uomo. Chiaramente, ricorda Dottorini, il mezzo cinematografico mette in atto un raddoppiamento dell’identità filmata: ecco allora che, se tale mezzo viene utilizzato in una modalità che asseconda tale caratteristica, anziché tentare di negarla, il filosofo non può più nascondersi dietro il suo parlare, ma è costretto a divenire una sorta di personaggio di se stesso, “catturato” nella sua vita quotidiana e nell’imbarazzo dell’essere mostrato.
In casi come questo, è il film, considerato in primo luogo come prodotto artistico, a dettare la logica della composizione. Ecco dunque che possiamo tornare all’analisi di Daniela Angelucci, che ricorda come è proprio questo dispositivo composito, con i suoi contenuti narrativi, con il suo stile, con la precisa progettualità autoriale, e non da ultimo, con l’esperienza dello spettatore che implica, a determinare ciò che viene rappresentato. Con l’ausilio di alcuni classici della letteratura tra cinema e psicanalisi, l’autrice compie un affondo in tema di compenetrazione tra cinema e vita psichica: il titolo del suo saggio, “Mi vedo dove non sono”. Il cinema e lo specchio, allude infatti all’autoformazione e alla costruzione di sé nella stadio “dello specchio” identificato da Freud e che con Lacan arriva al punto più potente della sua formulazione. Per Lacan, infatti, non è tanto l’io che costruisce la propria immagine ed attraverso essa entra in relazione con la realtà, ma è l’immagine stessa che casualmente si incontra che “letteralmente ci crea come soggetti”. Ecco allora che il cinema può rappresentare un dispositivo di identificazione doppiamente complicato, non solo dal versante immagine, che ci permette di “vederci lì dove non siamo”, ma anche su quello dello sguardo, invitato a sostare e a farsi carico della propria potenza scopica.
Ancora sulla natura finzionale del documentario, che è sempre allo stesso tempo descrizione e rappresentazione della realtà, si incontra la visione del curatore del volume, Igor Pelgreffi, che nel suo corposo saggio articola alcune questioni formali inerenti il docu-film su un filosofo. Rispetto alla linea precedentemente individuata, ci si situa qui su di un piano di analisi più orientato all’oggetto che al soggetto, nei confronti del quale l’ipotesi di fondo è relativa a un presunto “isomorfismo fra scrittura filosofica e docu-film”. La possibilità di analizzare la forma docu-film come forma testuale-testo filosofico è messa in relazione con le condizioni della scrittura in quanto tali della filosofia: come il film, il libro si compone attraverso il montaggio di materiali e per raffinamenti successivi; ecco allora che si potrebbe pensare, immagina Pelgreffi, che tutto ciò che in questa operazione viene scartato possa essere catalogato tra gli inediti di un autore. Con la differenza che nel caso docu-film si tratta di un’autorialità complessa, e diversamente stratificata, dato che al testo del filosofo si sovrappone almeno un’altra selezione autoriale, ossia, quella relativa alla composizione degli elementi della grammatica filmica (montaggio, luci, inquadrature, sonoro…). Questa componente è talmente importante ed evidente che, suppone l’autore, può essere in grado di modificare le abitudini espositive del filosofo, o addirittura il senso del suo discorso.
In realtà, il quadro che si delinea riporta alla mente episodi verificatisi anche nel caso di testi scritti, di cui il più noto è certamente il dramma degli aforismi di Nietzsche e della loro ricomposizione postuma da parte della sorella Elizabeth, ma senza ricorrere a casi illustri basta pensare a quanto gli obblighi legati al formato (battutaggi, scansioni, notazione…) possano influire sulla complessità argomentativa di un testo filosofico. In fondo, viene da chiedersi, certamente il medium modifica nell’esposizione il pensiero ed in particolare le sue forme, ancor di più quando lo mette in relazione con altri registri espressivi (visivo, sonoro), ma è davvero questa una diminuzione della potenzialità del discorso filosofico e della figura del filosofo, che così, anche secondo Pelgreffi, corre innanzitutto il rischio di divenire una sorta di merce-feticcio? Non sarà piuttosto l’occasione per poter finalmente pensare con tutta evidenza alla filosofia come a qualcosa di diverso da un messaggio da trasmettere, come qualcosa che non ha bisogno della ricerca di un canale “più adeguato” ma che invece, in quanto pensiero in atto, farsi di qualcosa, ossia nel suo aspetto più propriamente performativo, deve imparare a vivere nel mezzo che abita, facendosi carico della possibilità di riuscire a utilizzare, appunto, performativamente, tale mezzo?
Come sostiene Antonio Lucci in Medien bestimmen unsere Lage. Note su filosofi e schermi a partire da Friedrich A. Kittler, del resto, la filosofia deve essere vista innanzitutto come una tecnica culturale, che deve fare della propria capacità di “stare vicino” per facilitare l’ascolto (o la lettura) una prerogativa irrinunciabile. Così infatti l’autore: “la filosofia è quella particolare antropotecnica che ha sempre agito sugli esseri umani attraverso una messa-in-forma comunitaria e attraverso pratiche di lettura e discussione comuni, perpetrate per lo più in comunità abitative fisse nel mondo antico, e in spazi deputati, con rigide scadenze temporali, nel mondo moderno e contemporaneo”. Quale mezzo migliore dello schermo allora, che nel presente troneggia tra le presenze più pervasive della vita di ciascuno, e con esso la rete, nuovo luogo delle comunità, per avvicinarsi ulteriormente ai singoli? Inoltre, afferma ancora Lucci, è proprio lo schermo del computer ciò che unicamente permette, oggi, di fare filosofia anche in forma scritta, emancipando il filosofo dall’industria libraria e dall’impianto politico di sapere costituito dalle università con le sue prassi di inclusione-esclusione-accreditamento.
Proprio in chiusura, in parallelo con la nostra linea di superamento della personalizzazione della filosofia nella soggettività del filosofo, ma ancor di più in una sorta di avanzamento in una prospettiva che guarda al cinema anche al di là della sua componente estetica, e ne considera la dimensione tecnica e industriale, oltre che tecnologica, troviamo“Il cervello è lo schermo touch”. Trasformazioni tecno-logiche da Deleuze a Stiegler, di Paolo Vignola.
Concependo il suo intervento come una proposta d’aggiornamento del quasi omonimo saggio di Gilles Deleuze, l’autore riprende dal filosofo francese le considerazioni in merito alla capacità di questo mezzo di porsi come una vera e propria possibilità di pensiero, grazie alla sua capacità di produrre il movimento nelle (e tra le) immagini, modalità che tocca e letteralmente sciocca il pensiero stesso. Questo stesso tipo di shock, che Deleuze riconosceva come motore trascendentale del pensiero, è quello con cui abbiamo a che fare oggi quando ci troviamo in presenza di vari strumenti tecnologici di cui molto spesso conosciamo in maniera soltanto approssimata l’uso. Se possiamo affermare che il cervello si sviluppa anche in relazione ai supporti tecnologici con i quali si concatena, è evidente che oggi sono gli schermi (compresi quelli touch di ultima generazione) e i software o programmi ad essi connessi ad in-formare letteralmente i nostri circuiti neuronali. Un’in-formazione che, però, rischia molto presto di divenire soggetta a un potere, o meglio, a un neuropotere, come direbbe Bernard Stiegler, l’altro filosofo convocato da Vignola, ossia, “un modo di creare ricchezza o miseria, tanto economica quanto simbolica”, e, in ogni caso, di trarne profitto. In un senso che aggiorna anche un altro concetto dell’ultimo Deleuze, quello di controllo, il saggio mostra come, nel momento in cui le tecnologie si scoprono psico-tecnologie, ossia sistemi in grado di agire direttamente sui processi neuronali, attraverso la riconfigurazione dei processi di individuazione e di attribuzione di senso, un’ideologia di tipo neuroeconomico si impossessa di loro. Una simile ideologia, che considera i processi di decisione come puri automatismi psichici, ritiene di poter calcolare integralmente ogni comportamento umano, e procede, su questa base e attraverso un sistema capillare volto al controllo dell’attenzione, a trarne valore. Se quello dipinto è uno scenario piuttosto inquietante, la sfida della filosofia è chiaramente quella di non limitarsi a una sua denuncia o a un atto di resistenza, ma di immergersi nella stupidità sistemica sporcandosene le mani, divenendo insomma in grado, proprio a partire dal senso di inadeguatezza e dalla critica di questo sistema, di comprenderla e di girarne le forme a proprio favore, al fine di “renderla utile allo sviluppo di capacità cognitive inedite”.
Quest’ultimo richiamo alla modalità farmacologica del pensiero filosofico ci fa tornare a riflettere di nuovo, e après coup, sul senso più generale del volume, e sembra così proiettare un’ulteriore considerazione, che aleggia nelle pagine della raccolta pur rimanendovi inespressa: dopo aver tentato di esplorare i modi in cui la condizione mediale modifica la filosofia, e dopo aver riconosciuto ciò che tale condizione sottrae alle sue condizioni di possibilità, diviene forse utile interrogarsi sulle forme in cui la situazione può essere invece sfruttata dalla filosofia stessa per spinozianamente aumentare, anziché diminuire, la propria potenza. Superare, seppure a partire da una sua presa in carico, il senso di inadeguatezza e di minorazione di fronte alle tecnologie, dunque le stesse logiche del there is no alternative alle quali la telecrazia ci vuole costretti, per poter finalmente arrivare non solo a raccontare, a descrivere o a esporre, ma addirittura a fare filosofia con tutti quegli schermi della cui presenza è ormai impossibile fare a meno.

 

Igor Pelgreffi, Il pensiero e il suo schermoMorfologie filosofiche fra cinema e nuovi media, Kainos-Youcanprint, 2013 

Sara Baranzoni

 

 

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