Articolo/Recensione a Art, or listen to the silence, Soun-Gui Kim in conversation with Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy and John Cage
DVD – sottotitolato e trascritto in inglese e francese
L’opera d’arte (e il silenzio) nell’epoca della globalizzazione
di Giuseppe Zuccarino
I filosofi si affidano sempre più spesso alla forma dell’intervista, sia essa scritta, destinata a una trasmissione radiofonica, oppure filmata. Quest’ultima variante presenta una sua specificità, dovuta al fatto che l’intervistato vi trasmette, oltre a un determinato messaggio di tipo concettuale, tutta una serie di altri segnali concomitanti: lo scenario in cui si trova al momento delle riprese, l’abbigliamento, le posture che assume, i gesti che compie, le intonazioni vocali. Si tratta di un insieme di dati di cui occorre tener conto, specie se si considera che ormai quasi tutti i pensatori di rilievo accettano, prima o poi, di correre il rischio di mostrarsi mentre, in risposta alle domande che vengono loro rivolte, conducono un discorso almeno in parte improvvisato ((Su questo tema, cfr. AA. VV., Il pensiero e il suo schermo. Morfologie filosofiche fra cinema e nuovi media, a cura di Igor Pelgreffi, Tricase, Kainos Edizioni-Youcanprint, 2013.)). Ovviamente si tratta pur sempre di filosofia, dunque la qualità del risultato dipende non soltanto dalla circostanza che l’intervistato sia di bella presenza e retoricamente abile, o che le scelte di chi sta dietro la macchina da presa si rivelino oculate ed efficaci, ma anche e soprattutto da ciò che viene detto.
Jacques Derrida, avendo conseguito http://www.cialisgeneriquefr24.com/cialis-prix-forum/ una rinomanza mondiale grazie ai suoi libri e ai frequenti soggiorni all’estero per tenere corsi e conferenze, si è trovato a concedere un gran numero di interviste, alcune delle quali filmate. Inoltre (e questo è già un tratto più originale) qualche volta tali interviste hanno assunto
addirittura la forma di lungometraggi, di veri e propri documentari che lo vedono come protagonista ((Pensiamo in special modo ai due esempi più noti, ossia ai film di Safaa Fathy, D’ailleurs, Derrida, 1999 (DVD, Paris, Éditions Montparnasse, 2008) e di Kirby Dick e Amy Ziering Kofman, Derrida, 2002 (DVD, Paris, Blaq Out, 2007).)). Il caso su cui vorremmo soffermarci è meno eclatante, e tuttavia significativo. Ci riferiamo a un dialogo condotto con lui dall’artista sudcoreana Soun-Gui Kim nel 2002, proposto adesso all’interno di un DVD che contiene anche una videointervista a Jean-Luc Nancy e la ripresa di due brani per voce eseguiti da John Cage nel 1986 ((Art, or Listen to the Silence. Soun-Gui Kim in Conversation with Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy, and John Cage, DVD, Philadelphia, Slought, 2014.)). Una fruizione meditata della conversazione con Derrida, che è piuttosto ampia (il filmato dura 49 minuti), viene resa più agevole dal fatto che di essa troviamo la trascrizione in uno dei due booklet che accompagnano il DVD; anzi, il testo figura, oltre che nell’originale francese, anche in traduzione inglese e coreana; l’intervista, infatti, era stata realizzata allo scopo di trasmetterla nel corso della Biennale internazionale d’arte di Gwangju.
Prima di entrare nel merito delle tesi esposte dal filosofo, conviene fare un accenno alle riprese filmate. In esse vediamo Derrida seduto accanto a un tavolo, in una stanza o veranda che dà sul giardino della sua casa di Ris-Orangis, presso Parigi. Sullo sfondo, ci sono dunque molte piante, che rendono piacevole e arioso lo scenario. Derrida indossa una camicia rossa, un gilè nero e dei pantaloni grigi, ed appare attento sia nel parlare che nell’ascoltare le domande della sua interlocutrice (seduta di fronte a lui). Tuttavia non sembra teso, anche perché a tratti si rilassa fumando un sigaro. Le riprese, pur essendo abbastanza accurate, non mirano affatto al perfezionismo: ad esempio, a un certo momento si nota un tecnico che (stando chinato, nel vano tentativo di dar meno nell’occhio) passa dietro la sedia del filosofo al fine di sistemare qualche attrezzo, poi torna al proprio posto.
Il titolo del dialogo, Y-at-il par-dessus le marché, un art, à l’avenir de la mondialisation…?, è desunto dalla prima domanda di Soun-Gui Kim. Derrida coglie subito l’espressione idiomatica francese par-dessus le marché, che trova interessante proprio in quanto ambigua:presa a sé significa «per soprammercato», «in più», «in aggiunta», ma nel contesto specifico si presta ad evocare anche «l’idea di un’arte che eccede in qualche modo le leggi del mercato» ((J. Derrida, in Y-at-il par-dessus le marché, un art, à l’avenir de la mondialisation…?, booklet in Art, or Listen to the Silence, cit., p. 16. Ricordiamo che già un testo assai più antico giocava sulla duplicità di senso della locuzione: intitolato + R (par-dessus le marché) e riferito ai disegni di Valerio Adami, figura in La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978, pp. 169-209 (tr. it. + R(al di sopra del mercato), in La verità in pittura, Roma, Newton Compton, 1981, pp. 141-175).)). Il filosofo esordisce appunto chiedendosi in quale maniera l’arte, pur essendo necessariamente coinvolta nel circuito mercantile, possa trovare il modo di sviarlo o di eccederlo. È vero che di norma, nell’epoca della globalizzazione, le idee e la merci (opere d’arte comprese) circolano più facilmente, varcano sempre più spesso le frontiere nazionali e continentali, ma occorre non lasciarsi manipolare dall’impiego che viene fatto del concetto di mondializzazione. Spesso, infatti, chi lo usa vorrebbe far credere «che l’intera popolazione mondiale abbia un accesso immediato, non soltanto a tutte le merci, a tutte le idee, a tutte le risorse del lavoro, ma anche a tutte le opere d’arte» ((Y-at-il par-dessus le marché, un art, à l’avenir de la mondialisation…?, cit., p. 16.)). Questo è semplicemente uno slogan ingannevole. È giusto apprezzare e valorizzare il fatto che una certa visibilità e mobilità dei prodotti artistici si attui su larga scala, però occorre anche essere consapevoli del rischio effettivo a ciò connesso, ossia quello che, «per rendere tale circolazione delle opere d’arte più facile, più redditizia, più capitalizzabile, più vendibile, si tenda a cancellare i tratti che, precisamente, collegano l’opera alla sua storia, al suo idioma, alla sua differenza linguistica e culturale» (p.17).
Ciò che l’artista realizza, entra necessariamente a far parte del mercato, perché l’unicità del prodotto (il filosofo pensa in particolare all’esempio di un dipinto) suscita di per sé il desiderio di appropriazione, dunque di speculazione commerciale. Derrida, tuttavia, esorta gli artisti a respingere, già nel momento in cui realizzano la loro opera, la tentazione di confezionare qualcosa che si adatti pedissequamente alle richieste mercantili. All’opposto, essi dovrebbero «inventare una pratica […] che sia anche una pratica politica, al tempo stesso poetica e politica, per resistere a ciò che, nel mercato, rischierebbe di impoverire l’arte, di cancellare l’idioma» (p.18). Col pretesto della globalizzazione, infatti, si sviluppa sempre più la tendenza ad omogeneizzare i prodotti culturali, il che si accompagna al predominio esercitato dai paesi economicamente più forti, primi fra tutti gli Stati Uniti. Spetta appunto agli artisti opporsi a quella che, con uno dei suoi tipici neologismi, Derrida denomina «omo-egemonizzazione» (ibid.).
Un altro fenomeno da lui giustamente sottolineato concerne lo stretto rapporto che l’arte intrattiene con le trasformazioni tecnologiche. È palese infatti che «ci sono
dei nuovi supporti, definiti “immateriali”. E assieme ai nuovi supporti, ci sono dei nuovi modi di circolazione delle opere, ma anche delle nuove tecnologie negli strumenti stessi della produzione artistica» (p.19). Pur senza perdere di vista le specificità di ogni singola arte, occorre considerare il fatto che attualmente molti pittori, architetti, musicisti, scrittori, usano il computer e Internet non soltanto per far conoscere le loro opere, ma già per concepirle e produrle. Ovviamente non si tratta né di deplorare il mutamento, né di ritenere «che basti utilizzare questi nuovi strumenti per produrre delle opere d’arte valide» (ibid.). Su questo punto Derrida concorda, pur senza citarlo, con l’ammonimento enunciato parecchi decenni prima da Adorno: «Nessuno dovrebbe più abbandonarsi ingenuamente al “parti pris” dell’arte contemporanea a favore della tecnologia; altrimenti l’arte si dedica soltanto a sostituire lo scopo (il prodotto della creazione artistica) coi mezzi, coi procedimenti, con cui quello viene ottenuto» ((Theodor W. Adorno, Teoria estetica (1970), tr. it. Torino, Einaudi, 1975, p. 485.)). Ma egli si mostra senz’altro, rispetto al pensatore francofortese, più aperto agli sviluppi tecnologici e alle proficue possibilità che ne derivano per l’arte.
A suo giudizio, è il concetto stesso di globalizzazione che va ripensato. Occorre ricordare infatti che non sempre i prodotti artistici più conosciuti e riconosciuti sono i più significativi. Anzi, «talvolta c’è una più potente avventura “mondializzante” o “universalizzante” da parte di qualcuno che in fondo è solo, chiuso nel proprio atelier, che non viaggia, non fa circolare le proprie opere, ma crea cose dotate di una potenza di universalità, al contrario delle opere che apparentemente viaggiano da un continente all’altro, vengono esposte ovunque, ecc., e che sono cheap, non hanno nessun potere di mondializzazione» ((Y-at-il par-dessus le marché, un art, à l’avenir de la mondialisation…?, cit., pp. 19-20.)). Tutto dipende dalla potenza intrinseca all’opera, nonché dal carattere imprevedibile del contatto che si viene a stabilire tra essa e il fruitore. Derrida sintetizza ciò ricorrendo a una formula del poeta Paul Celan, «il mistero dell’incontro» ((P. Celan, Il meridiano (1960), in La verità della poesia, tr. it. Torino, Einaudi, 1993, p. 15.)). Dallo stesso testo celaniano, il filosofo riprende altre due espressioni, «antiparola» e «svolta del respiro» (pp. 5, 13, 18). Esse gli servono per indicare l’interruzione, il silenzio, che consente la rottura della comunicazione ordinaria e l’instaurarsi di un dialogo più profondo. A questo fine, secondo il filosofo, devono tendere non soltanto la poesia, ma anche le altre arti: «Occorre, nella parola, salvare il silenzio» ((Y-at-il par-dessus le marché, un art, à l’avenir de la mondialisation…?, cit., p. 21.)).
Si tratta di un tema che sta molto a cuore a Soun-Gui Kim, artista influenzata dalle idee del compositore John Cage. Se quest’ultimo sosteneva che il silenzio non è l’assenza di suono, bensì l’apertura ai suoni che ci provengono dal mondo esterno, Derrida conferma tale concezione tramite un aneddoto personale, risalente a quando si stava girando un documentario su di lui: «Mi ricordo una volta, nel corso di un film […], si era parlato, si era filmato, e alla fine come sempre si era taciuto, era stato registrato un tempo di silenzio, che il cineasta avrebbe collocato qua o là. Poi il tecnico del suono mi ha chiesto di avvicinarmi, mi ha fatto mettere le cuffie e ha detto “ascolti il silenzio”. Era nel sud della Spagna. Apparentemente c’era un grande silenzio. E io ho sentito un rumore! Dei rumori, dei versi di uccelli… era popolato di… come una foresta vergine, come la giungla. Dunque, bisogna ascoltare il silenzio, l’essere popolato del silenzio. Ed è questo, l’arte»((Ibid., p. 21. Vista la location, il film in questione dev’essere il citato D’ailleurs, Derrida.)).
A suo giudizio, l’artista ha il diritto, e la possibilità, di opporre al frastuono invadente del mercato uno spazio più tacito. Egli fa notare che l’Estremo Oriente, ossia la zona del mondo da cui proviene la sua interlocutrice, ha forse sviluppato più dell’Europa una cultura legata a ciò. E anche se, in un suo viaggio in alcune grandi città della Cina, è rimasto colpito dallo sviluppo molto accentuato di una civiltà moderna e tecnicizzata di tipo occidentale, ha avuto altresì l’impressione che i cinesi sappiano conservare intatti alcuni luoghi tradizionali e, in essi, un certo silenzio. Perché un dialogo fra idiomi diversi sia possibile, occorre inoltre far ricorso a delle pratiche di traduzione. E anche in ciò, secondo il filosofo, l’arte svolge un ruolo difficile ma privilegiato: «È artista colui o colei che riesce a tradurre senza cancellare l’idioma; a incontrare l’altro senza cancellare la differenza. Ed è ogni volta un’opera d’arte. […] Ma qui non farei distinzioni tra l’arte e l’etica, o la politica» (p.23).
Nella parte finale del dialogo, Derrida non manca di tematizzare la situazione in cui si trova, quella, piuttosto insolita, di un pensatore francese che svolge il ruolo dell’intervistato in un documentario rivolto al pubblico dei visitatori di una Biennale d’arte nella Corea del Sud. Deplorando il fatto di aver accennato in maniera vaga all’Estremo Oriente, senza aver potuto riferirsi in modo più specifico a quel paese, il filosofo formula comunque un augurio: «Ciò che sogno, tuttavia, è che, pur nelle costrizioni economiche del tempo di parola (una mezz’ora press’a poco per una sequenza che viaggerà fino in Corea), è che quest’istante non valga semplicemente per il contenuto di idee che avremo saputo sviluppare, lei e io, ma che ci sia un istante, che conservi la traccia di un istante poetico così, traducibile, intraducibile […], con questi colori, questo rosso, questa luce» (ibid.). Dunque, se l’insieme dei segnali, sia concettuali che visivi, giungerà a destinazione, se l’incontro – grazie ai mezzi di registrazione e ritrasmissione offerti dalla tecnologia – resterà fissato e visualizzabile anche a lunga distanza di spazio e di tempo, allora qualcosa avrà trovato espressione, foss’anche solo «una provocazione ironica contro la cheap globalization» (ibid.).
Soun-Gui Kim va elogiata per aver reso oggi accessibile ad un più vasto insieme di spettatori questo dialogo, nel quale Derrida dimostra, più ancora che in altri suoi scritti sulle arti https://www.acheterviagrafr24.com/viagra-ordonnance/ visive, un’acuta lucidità riguardo a un insieme di problemi (estetici, etici, politici) che sono da considerare pienamente attuali. Occorre inoltre riconoscere al filosofo il merito di aver saputo evidenziare in maniera concreta che un’intervista filmata può dar luogo a qualcosa di ben diverso da un rituale autocelebrativo. Nei casi migliori, infatti, questa forma di filosofia in atto giunge a configurarsi come un’esperienza di pensiero condensata in un breve arco temporale. Perché si realizzi, è necessario lo stimolo esterno, ossia quell’interazione con l’altro che, come dice lo stesso Derrida, «può essere assai modesta, può accadere in un istante, un incontro, uno scambio di sguardi, può anche assumere, beninteso, la forma di un’opera» (ibid.).
(2014)