Insorgenze, di Mario Pezzella (Jaca Book, Milano 2014, pp. 274, euro 18)
Recensione di Stefania Consigliere
È possibile che il sottotitolo de «La Deleuziana» mi metta soggezione. Il sospetto mi è nato qualche mese fa quando, riflettendo sui testi che avrei voluto recensire, rimuginavo sulla loro maggiore o minore appetibilità per una rivista che desidera. Non una rivista di filosofia contemporanea, e neanche una rivista di critica deleuziana; e neanche, a ben vedere, una rivista di. «La Deleuziana» è l’unica rivista che – e che, per giunta, desidera! In questa luce somiglia a una creatura mitologica in agguato sulla strada, che può investire il passante di fascinoso desiderio oppure abbandonarlo fra i reietti: fra i non desiderabili, appunto. Quali testi mandare all’incontro con un’entità siffatta?
Nel presentare ai lettori della rivista il nuovo volume di Mario Pezzella, allora, vorrei cominciare proprio con una riflessione sul desiderio e sulle stelle che lo orientano. De-siderare significa posare lo sguardo sulle costellazioni celesti (da sidus, sideris: astro), aspirando a raggiungere o a portare a sé (se-ducere: sedurre!), qui sulla terra, quella bellezza; oppure, in un’altra lezione, constatare l’assenza di una stella, come nel gergo degli àuguri e dei marinai, e perciò avvertirne la mancanza. Interpretazioni contrastanti, che tuttavia sono da accogliere insieme: il desiderio è la via che devo prendere, l’astuzia che devo impiegare, per portare a me ciò di cui constato la mancanza. Il discorso è antico e potrebbe ulteriormente approfondirsi: dalla scomparsa contemporanea del desiderio al potere trasformativo del desiderio su chi lo accoglie; ma per ora basti questo.
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Da molti anni Mario Pezzella insegue una pista sottile, che rintraccia nella filosofia, nel pensiero politico, nella storia, nel cinema, nelle opere d’arte, nella letteratura. Un’unica ricerca lega i suoi testi più teoretici alle opere di estetica, ed è la stessa che già si fiutava, in lavorazione, nei suoi libri precedenti e che ha sotteso i suoi interventi politici nella sperimentazione di Dmk0 (Democrazia Km Zero, http://www.democraziakmzero.org/). Ha un timbro peculiare, in cui risuonano diverse armoniche: una pazienza che, quand’è il caso, sa farsi ostinazione; la chiarezza, con l’enorme
fatica della sua costruzione; e infine la delicatezza dei toni (e si sa che, in tutte le circostanze di maggior momento, il tono è questione fondamentale). Qual è l’oggetto di questa ricerca? La risposta non è semplice, per fortuna.
Per fortuna: perché ancora esistono concetti che non sono riassumibili in poche frasi o, peggio ancora, in una tombale tagline; e ancora vivono, di una loro vita clandestina, “cose” che non si possono indicare ostensivamente e che, a guardarle, non si mettono subito nella posa analitica del riferimento oggettivo di un vocabolo. Ci sono entità che non si possono fissare direttamente, ma solo intravedere ai margini del campo visivo, in quella coda dell’occhio in
cui, a nostra insaputa, transitano tutti i fantasmi dell’immaginario.
“Immaginario” è parola-chiave per inoltrarsi nel nuovo testo di Pezzella, a patto d’intenderlo, nel suo senso più ampio e inquietante, come l’insieme delle insegne impresse su di noi dal lunghissimo lavoro culturale che, a partire dalla nostra nascita, ci ha piegati entro una forma storica specifica; come il complesso delle immagini, dei sogni, dei fantasmi – belli o brutti, benevoli o maligni – che ogni umano riceve in eredità dai propri antenati, dal linguaggio che parla, dal luogo che abita e dai tempi che gli sono toccati in sorte; e che lo guidano – a volte sveglio, più spesso dormiente o inconsapevole – nella terra di nessuno che sta fra ciò che c’è e ciò che ci potrebbe essere. In questo senso, l’immaginario non è affatto il contrario del reale: ne è, semmai, il terreno di coltura, il brodo storicamente determinato nel quale nuotiamo come pesci e che – come appunto i pesci con l’acqua in cui nuotano – non percepiamo.
Nell’immaginario stanno moltissimi oggetti finiti, quelli che fanno parte fin dalla nostra nascita del mondo che abitiamo e che sono, nel vocabolario di Walter Benjamin, la storia naturale di una generazione; e anche una miriade di oggetti non finiti: possibilità perdute e mai dimenticate, intuizioni di cose, residui di imprese inconcluse. Ciascuno di essi può diventare un pezzo della storia naturale nella quale si muoveranno le generazioni a venire, ma nessuno di essi lo diventerà per una qualche necessità o in base a una meccanica che ne garantisca la realizzazione. Bisogna appunto che siano desiderati: che l’astuzia, l’accortezza, la metis umane li portino a noi.
Al cuore della ricerca di Pezzella sta da sempre uno di questi oggetti non finiti, ancora solo intravisti, la cui silhouette si delinea chiaramente nei suoi due ultimi testi: La memoria del possibile, uscito per Jaca Book nel 2009, e ora questo nuovo Insorgenze. È la stessa immagine fugace che talora folgora i lettori delle Tesi di filosofia della storia di Benjamin e per la quale non ci sono nomi già a disposizione, così come avviene per certe aperture di cuore; ed è il medesimo elemento che può rendere le Tesi drasticamente incomprensibili. Credo che l’autore non si offenderà se scrivo che l’intera sua opera può essere considerata come un incessante, amorevole commentario delle Tesi benjaminiane.
Insorgenze è due libri; o meglio, è un libro dentro un altro libro. C’è un primo libro-cornice, che apre e chiude il volume coi quattro capitoli iniziali e i quattro finali. Racchiuso al suo interno c’è un secondo libro, che potrebbe essere un’opera autonoma e che, se lo fosse, s’intitolerebbe Teologia del denaro. Si tratta di una riflessione in quattro capitoli su un lungo frammento giovanile di Benjamin intitolato Capitalismo come religione, scritto nel 1921, edito in Italia dal Nuovo Melangolo nel 2013 e già oggetto di preziose letture (si veda ad esempio quella proposta da Elettra Stimilli nel Debito del vivente). Due libri, dunque, tenuti insieme entro una sola copertina. Scelta opportunistica? Necessità autoriale di raccogliere e fascicolare il lavoro degli ultimi anni? O c’è altro?
Facciamo un passo indietro e uno a lato. Nel 2005 Isabelle Stengers e Philippe Pignarre pubblicano in Francia un testo a quattro mani, significativamente intitolato La sorcellerie capitaliste, in cui teorizzano che il peculiare stato di passività e rassegnazione (e, a un decennio di distanza, anche disperazione) che caratterizza i nostri anni sia effetto di un’operazione stregonesca che l’impianto capitalista agisce sui soggetti che abitano entro i suoi confini. La stregoneria comporta la cattura dell’anima: non ho modo, qui, di entrare nel merito della letteratura etnografica – ciò che, pure, sarebbe del massimo interesse. Basti dire questo: nel capitalismo le anime sono catturate dalla fantasmagoria della merce, dallo spettacolare, dalla coazione al godimento e da «immagini di sogno» che, nel prometterci continuamente la felicità, ci rendono ciechi alle condizioni reali della sopravvivenza e alle possibilità altre di vita che, pure, si danno e si sono date.
E proprio la forzata, potentissima reductio ad unum ontologica, epistemologica ed etica – che perfeziona e completa, nella contemporaneità, l’opera della modernità – è in causa come dispositivo cruciale di cattura.
Di fronte a quest’Uno intrattabile, Benjamin individua nel montaggio uno strumento di contro-stregoneria: la giustapposizione intelligente di singoli elementi scelti e ritagliati con cura permette infatti di controeffettuare l’unicità. Il montaggio smonta la linearità delle “grandi narrazioni”; dissolve il velo rendendo visibile il «cristallo dell’accadere totale»; e infine fa balenare negli accostamenti le possibilità alternative che, in ogni presente, si danno. E che si conservano anche nel passato, come possibilità che esigono di essere redente: visibili solo nell’istante del pericolo, quando, ancora una volta, bisogna riparare i morti dall’interminabile vittoria dei vincitori.
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Ora, proprio il particolare montaggio che un fine esegeta benjaminiano ha scelto per il suo ultimo libro dovrebbe metterci sull’avviso. E infatti la relazione fra i due momenti di Insorgenze è del massimo interesse e si può leggere come una riflessione politica particolarmente acuta. L’alternanza mima infatti il movimento che continuamente lega e oppone un “dentro” a un “fuori”, uno “stare” a un “andare”, il momento della costruzione a quello dell’esplorazione. Movimento che la gran parte delle società umane lavora accuratamente ricavando, da questo andare e venire, indicazioni preziose sul presente e su quel che c’è da fare; e che, nel nostro mondo, a causa appunto della sua chiusura monista, si è fatto difficilissimo.
I capitoli dedicati alla teologia del denaro partono dall’intuizione benjaminiana del capitalismo come religione totalitaria dal culto incessante. A differenza di quanto avviene altrove, qui non vige la separazione fra giorni “feriali”, in cui si bada alle ordinarie faccende del mondo, e giorni “festivi”, in cui si celebrano le potenze divine: tutti i giorni e tutte le opere appartengono al dio Denaro. Nel capitalismo ogni giorno è festivo – dal punto di vista del dio, s’intende; dal nostro di fedeli, invece, tutti i giorni sono feriali; o, se si preferisce, il capitalismo come religione instaura uno spazio d’indistinzione, in cui le attività comuni sono anche e sempre attività cultuali, e viceversa.
Anche questo – soprattutto questo – fa parte della feroce reductio ad unum descritta sopra: il movimento capitalista è totalitario e omogeneizzante, nulla di diverso deve esistere, né al suo interno né al suo esterno; nessun altrove, nessuna distinzione, nessuna intenzione altra può essere tollerato. Qualche esempio, corredato da qualche consiglio di lettura: la sparizione della festa (Furio Jesi, Il tempo della festa); il pervertimento dell’immaginario nel processo globale di proletarizzazione (Michael Taussig, The devil and commodity fetishism e Shamanism, colonialism and the wild man); la criminalizzazione della devianza (Foucault, Sorvegliare e punire); la messa al bando degli stati non ordinari di esperienza (Coppo e Girelli, Schiudere soglie); la squalificazione delle conoscenze non logico-deduttive (Enzo Melandri, La linea e il circolo; Stephen Toulmin, Cosmopolis); la streghizzazione delle sacche di resistenza buy levitra nz you e dell’alterità (Luciano Parinetto, La traversata delle streghe; Silvia Federici, Caliban and the witch); l’egemonia dell’economico (Karl Polanyi, La grande trasformazione).
Oggi l’operazione parrebbe completa: chiusi tutti i commons (fisici e virtuali), sterminati gli indios, aperti i negozi di domenica, bruciate le streghe, costruiti asili per devianti e carceri per delinquenti, reso impossibile anche solo immaginare una sussistenza non capitalista, stabilizzato l’umore con gli psicoattivi, reclusa l’infanzia nella scuola della competizione – cosa resta?
Eppure, ci dice Pezzella, qualcosa resta. I capitoli del libro-cornice ne scovano le tracce nell’intenzione ostinata che sottende le opere di registi, pittori e poeti del possibile anche nel mezzo delle epoche più disperate; nelle visioni folgoranti, e poco tramandabili, che si ricevono quando nel tempo storico, «caratterizzato dal decorso omogeneo e vuoto e dalla continuità del dominio», si apre una breccia. Da dentro, il dominio si presenta come ininterrotto e naturale, come soddisfazione di ogni nostro capriccio, come fantasmagoria spettacolare e come consequenzialità di principi incontestabili (si rammenti quanto scriveva Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo sulla «camicia di forza della logica, mediante la quale l’uomo può farsi violenza quasi con la stessa brutalità usata da una forza esterna»). Da fuori, l’impostura è evidente: la dinamica capitalista richiede l’applicazione continua di un’enorme quantità di violenza strutturale (dalla produzione di regimi del terrore alla continua espropriazione dei beni comuni, dall’erosione dei tempi di vita alla sistematica atomizzazione degli umani).
Ma fuori, lontani dalla fascinazione spettacolare che ci fa dimenticare la complessità del mondo e le sue asperità, si apre anche uno spazio pubblico libero dalla relazione servo-padrone, dove è possibile sperimentare qualcosa che ci è stato tramandato solo per allusioni, frammenti, timidi movimenti ostensivi. È qualcosa che fa segno a un’indicibile felicità: il «tesoro perduto» delle rivoluzioni, ciò che si prova nelle relazioni di uguaglianza e riconoscimento, nel senso di continuità fra umani, e fra umani ed entità non-umane. Questa felicità ancora resta senza tradizione, quasi senza parole, e non è chiaro perché. (In Between past and future Hannah Arendt suppone che sia per via di un “mancato compimento” nel pensiero di ciò che le generazioni rivoluzionarie hanno incontrato nel tempo della sospensione del dominio – ma forse il dominio è precisamente ciò che impedisce tale compimento?)
Di essa, perciò, sappiamo poco. Chi l’ha sperimentata dice che è uno stato dell’essere che resta indimenticabile ed esige fedeltà: fedeltà esistenziale, prima ancora che intellettuale. Chi non l’ha sperimentata ne può trovare traccia fra le pieghe di alcune opere e, in ciò, i libri di Mario Pezzella sono vere e proprie mappe di una terra nascosta e intermittente. E come tutte le mappe, anche questi testi non si lasciano ripiegare facilmente, almeno finché non trova ascolto la domanda più cruciale che essi pongono: come far sentire, a chi non ne ha fatto esperienza, la mancanza di una simile felicità senza nome? Come trasmettere la memoria di ciò che è massimamente desiderabile e la passione per l’astuzia che lo rende vero?