F. Luisetti, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 158.
Recensione di Fabio Treppiedi
Federico Luisetti, con questo suo volume, getta uno sguardo nuovo sulla biopolitica grazie ad un percorso storico filosofico incentrato da un lato su un serrato vis à vis con Deleuze e, dall’altro, sull’originale recupero in chiave naturalistica del “vitalismo” di Bergson e sulla declinazione politica dell’“orientalismo” di Nietzsche. Se Luisetti ci presenta Una vita come un libro su Deleuze, pertanto, lo fa proprio nella misura in cui ci invita ad interrogarci non soltanto sul modo in cui il filosofo francese pensa la vita ma anche sul senso in cui tutto l’occidente l’ha finora pensata. In Una vita ci si chiede cioè se esiste un pensiero della vita che sia “immediatamente” politico. Luisetti muove allora dal riflettere sulla possibilità di pensare filosoficamente la vita, rimettendo da qui in discussione le posizioni di Esposito e Agamben, i quali intravedono nell’ultimo scritto di Deleuze, L’immanenza: una vita…, le premesse di un fecondo vitalismo filosofico politico ((«Diciamo che la pura immanenza è UNA VITA, e nient’altro. Non è immanenza alla vita, ma l’immanenza che non è in niente è una vita. Una vita è l’immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: è completa potenza, completa beatitudine», G. Deleuze, L’immanenza una vita, p. 321, in Id. Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Einaudi, Torino 2010, pp. 320-324)) .
Mentre Agamben scorge qui una via per pensare la vita come “concetto filosofico-politico-teologico” in rapporto al quale “ripensare” le categorie fondamentali dell’occidentale ((G. Agamben, La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 403-404)) , Esposito vi rintraccia una “biopolitica affermativa” che “inverte la relazione reciprocamente distruttiva” tra vitae normaspinta alle estreme conseguenze dal nazismo ((R. Esposito, Bìos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 203. Al dispositivo tanatopolitico attraverso cui il nazismo “normativizza” fino all’estremo la vita, prosegue Esposito, la “biopolitica affermativa” – il cui riferimento storico filosofico principale è Spinoza – contrappone una “vitalizzazione della norma” che restituisce alle categorie stesse di norma e di vita «tutta la ricchezza del loro significato originario» (ibid).)) . Può davvero il pensiero deleuziano, si domanda però Luisetti, fare da base ad una biopolitica “assolutamente” affermativa? Quanto è “assoluta” la sua immanenza? Il pensiero autenticamente “vivente” è qualcosa di immediatamente connesso con l’agire e dovrebbe di per sé resisterea tutto ciò che lo “raggela” e lo “pietrifica” a tal punto da pregiudicare l’unitarietà del nesso tra vita, azione e pensiero. Essendo un “puro metafisico” ((A chi gli gli domandava se fosse un filosofo antimetafisico, Deleuze rispondeva «je me sens pure métaphysicien», G. Deleuze, Réponses à une série de questions, p. 130, in A. Villani, La guêpe et l’orchidée. Essai sur Gilles Deleuze, Belin, Paris 1999, pp. 129-131.)) , Deleuze non pensa fino in fondo l’immanenza, questa la tesi di Luisetti, proprio perché compromette alla radice l’unitarietà di questo nesso, introducendo l’immobilità nella vita come un che di “connaturato” al suo stesso movimento.
La filosofia di Deleuze è allora un “vitalismo trascendentale” che coglie la vita soltanto nel suo principio. Resta infatti fondamentale, per il filosofo francese, “relazionare” sempre la vita a “condizioni necessarie” che, se così si può dire, la rendono viva. Per comprendere questo punto essenziale della critica di Luisetti a Deleuze è opportuno rileggere L’immanenza: una vita…alla luce dell’ormai nota distinzione tra zoé e bìos, da cui Agamben prende le mosse in Homo sacer.
Agamben infatti, rileggendo il discorso foucaultiano sulla biopolitica, ridefinisce la transizione dall’antichità alla modernità e traccia una genealogia che affonda le radici nella Politica di Aristotele. È infatti da qui che emergono due termini chiave della biopolitica: la zoé, “il semplice fatto di vivere, comune a tutti gli esseri viventi” e il bìos, “la forma o maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo” ((G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, p. 3.)) . Un principio, quello cui Deleuze si appella, che nel suo essere “trascendentale” risponde contemporaneamente a tre condizioni: si genera nella zoé, non si confonde con la zoé stessa e indica il senso per cui la zoé si individua in “un” bìos. ((L’indeterminativo “una” riferito alla vita è infatti “indice del trascendentale”, L’immanenza una vita, cit., p. 322.)) Luisetti evidenzia quanto in questo suo “trascendentalismo dell’impersonale” l’esigenza di Deleuze rimane primariamente quella di rendere pensabile la vita. Quest’esigenza sarebbe sintomatica, in Deleuze come in diversi altri filosofi, dell’abitudine fin troppooccidentale ad assumere la “vita contemplativa” (il bìos theoretikos di Aristotele) come la “forma di vita” migliore, “snaturando” così il nesso tra il vivere e l’agire nella misura in cui il pensiero “svuota” la zoé del movimento che più le è proprio.
Luisetti mette in luce questo filo conduttore del pensiero di Deleuze insistendo metodicamente sul peso della sua eredità kantiana (e più profondamente, aggiungeremmo noi, aristotelica). Una vita intende infatti mostrare che Deleuze non pensa fino in fondo la vita proprio per la sua ispirazione kantiana e per la sua impostazione “teoretica” di fondo. Kant rappresenta quindi il pharmakon con cui Deleuze, secondo Luisetti, “avvelena” ogni filosofo con cui si confronta. Deleuze sottomette cioè i vari Hume, Spinoza, Bergson e Nietzsche alla “signoria del trascendentale” tanto da poterne ricondurre la vita e l’opera a un numero ristretto di “condizioni necessarie”. Questa sottomissione è attuata dal Deleuze interprete della storia della filosofia nell’immobilizzare metodicamente ogni filosofo preso in esame, fino a fare nascere dall’interno del suo stesso discorso un “doppio mostruoso” che il filosofo esaminato non riconoscerebbe mai come suo. Luisetti non fa altro che leggere i testi di Deleuze attraverso questo stesso metodo mostrando esattamente quanto Deleuze stesso risulta a sua volta “avvelenato” dal pharmakon kantiano. Una mossa interpretativa, questa di Luisetti, acuta e degna di attenzione soprattutto per il valore strategico che essa assume nell’economia complessiva di Una vita. Il fatto che un “deleuziano” possa non riconoscere il “vero Deleuze” in quello di Luisetti, in questo caso, non solo conferma l’efficacia della sua lettura ma ne rappresenta la conseguenza più necessaria. L’approdo di Una vitaè l’ipotesi, alquanto gravida di sviluppi, di una svolta naturalistica e orientalistica della biopolitica facente leva non tanto sull’abbandono o sul superamento del pensiero di Deleuze quanto piuttosto su un “prolungamento del suo movimento di pensiero lungo un’orbita eccentrica” che trasforma il pharrmakon in antidoto, lì dove la natura diviene con Bergson il “luogo” irriducibile di un pensiero dinamico e vitale che fa uno con l’azione mentre l’Oriente si rivela con Nietzsche l’“impensato della nostra attualità” politica, dunque, la “forza impolitica” che pulsa sempre più forte nel cuore dell’Occidente.