1. Cercherò oggi di rileggere la problematizzazione foucaultiana del potere a partire da un testo che costituisce una specie di “testamento filosofico” sulla questione, e cioè l’articolo intitolato Il soggetto e il potere. Mi concentrerò in particolare sulla seconda parte di questo testo, intitolata, programmaticamente, Come si esercita il potere?. Si tratta di un articolo redatto da Foucault nel 1982 sulla base degli stimoli ricevuti da due ricercatori dell’Università di Berkeley, Hubert Dreyfus e Paul Rabinow, che in quegli anni stavano completando una monografia dedicata alla Ricerca di Michel Foucault. Questa monografia ha il grande merito, a suo tempo riconosciuto dallo stesso Foucault, di averlo obbligato in qualche modo a ripensare il proprio percorso di ricerca, chiarendo diversi equivoci che si erano prodotti tra gli interpreti del suo pensiero [equivoci ai quali, a dire il vero, alcune delle sue stesse prese di posizione non erano state estranee].
Foucault redige in inglese la prima parte del testo (The Subject and Power) e in francese la seconda (Le pouvoir, comment s’exerce-t-il?). Le due parti, pur raccolte in un unico contributo, costituiscono due sezioni relativamente autonome, e per questo possiamo iniziare la nostra disamina a partire dalla seconda.
2. Prima di cominciare l’analisi della problematizzazione foucaultiana del potere dobbiamo però fare qualche considerazione preliminare. Innanzitutto ci dobbiamo chiedere: in che modo dobbiamo interpretare la ricerca di Michel Foucault nel suo complesso? Si tratta forse di un percorso compiuto, sistematico, esaustivo, conchiuso? Evidentemente no. Il primo punto che dobbiamo tenere presente è che Foucault rifiuta sistematicamente di attribuire alle sue ricerche sulle relazioni di potere lo statuto di “teorie”. Dobbiamo quindi avere ben chiaro che non ci troviamo di fronte all’ennesima “teoria del potere” bensì ‒ e su questo aspetto egli è stato categorico ‒ a quella che definisce un’analitica del potere.
Ovviamente, la differenza tra una “teoria” e una “analitica” del potere è rilevante e va chiarita. Per questo motivo è utile ricapitolare brevemente qualche passaggio nel quale Foucault parla direttamente del proprio lavoro, del modo nel quale voleva che fosse compreso, e in cui ci fornisce alcune chiavi di lettura per poterlo interpretare.
Cominciamo dalla fine. Nella Prefazione al secondo e al terzo volume della Storia della sessualità (intitolati rispettivamente L’uso dei piaceri e La cura di sé, che sono anche gli ultimi due volumi pubblicati in vita da Foucault) egli afferma, con riferimento ai suoi critici:
Quanto a coloro per i quali crearsi dei problemi, cominciare e ricominciare, cercare, sbagliare, riprendere tutto da cima a fondo, e trovare ancora il modo di esitare a ogni passo, coloro, insomma, per i quali lavorare in modo problematico e in un continuo travaglio intellettuale, equivale a una posizione dimissionaria, be’, non siamo, chiaramente, dello stesso pianeta.
(L’uso dei piaceri, p. 13)
Foucault concepisce perciò il proprio lavoro come una ricerca essenzialmente problematica. Il lavoro filosofico per lui coincide precisamente con questa continua problematizzazione del proprio presente storico, cioè di quella che definisce come la propria attualità. Infatti, proseguendo su questo tema, nello stesso testo egli si chiede:
Ma che cosa è dunque la filosofia, oggi – voglio dire l’attività filosofica – se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a che punto sarebbe possibile pensare in modo diverso?
(Ivi, p. 14)
Infine, per completare la nostra introduzione alla filosofia di Foucault, e al modo in cui questo autore intende il lavoro filosofico, è utile citare un passaggio tratto dalla prima lezione del corso al Collège de France del 1976 (“Bisogna difendere la società”), che chiarisce che cosa Foucault si aspetti dai suoi lettori, ovvero quale uso possiamo e dobbiamo fare delle sue analisi storiche e dei suoi concetti analitici. Egli afferma:
[…] vi considero interamente liberi di fare, con quello che dico, ciò che volete. Si tratta di piste di ricerca, di idee, di schemi, di linee generali. In altri termini: sono strumenti. Fatene pure quello che volete. Certo che, al limite, mi interessa sapere che cosa farete di quello che dico, ma non mi riguarda. E non mi riguarda, nella misura in cui non spetta a me stabilire le leggi dell’uso che potrete farne.
(“Bisogna difendere la società”, p. 11)
Dunque l’analitica del potere, a differenza della “teoria” del potere, si configura come un lavoro costitutivamente aperto, nel quale non si intende imporre al lettore nessun obbligo di ortodossia. I concetti elaborati da Foucault aspirano allo statuto di strumenti analitici forgiati nel corso di indagini storiche, finalizzati ad interpretare il nostro passato e ad essere messi alla prova del nostro presente. La loro utilità fa parte dell’ordine della pratica. Essi non vengono pensati in funzione di un sistema superiore capace di riassorbirli e di pre-ordinarli. L’essenziale è che “funzionino”, cioè che servano direttamente a qualcuno.
Se vogliamo, il “minimalismo” ostentato da Foucault può essere interpretato sia come un segno di modestia, di rifiuto delle “grandi narrazioni”, che come l’affermazione di un ruolo dell’intellettuale molto diverso da quello al quale il pubblico francese dell’epoca era abituato: penso in particolare alla figura dell’intellettuale “universale” messa alla moda da Sartre, di colui cioè che pretende di parlare in nome di un’ipotetica coscienza collettiva confrontandosi indifferentemente con qualsiasi tipo di problema, totalizzando, cioè generalizzando, le proprie posizioni; di colui che possiede, insomma, un’opionione su tutto e non esita a pontificare dispensando ricette universali in nome dell’umanità.
Foucault, com’è noto, ha contrapposto a questa figura totalizzante e universalizzante l’ideale dell’intellettuale specifico, di colui cioè che sa di essere immerso in un campo storico e per questo fa una critica locale, elaborata a partire da indagini regionali, microfisiche, dallo studio dei meccanismi concreti e quotidiani del potere. La verità che si può ricavare da una pratica di questo tipo non può certo aspirare all’universalità, ad una generalizzazione indiscriminata, ma è sempre una verità di parte, che rivendica il proprio carattere situato e la propria utilità locale per chi è direttamente impegnato in una lotta effettiva, per chi se ne può servire al fine di avviare i propri processi di liberazione da determinate relazioni di potere.
In sintesi, possiamo dire che l’intellettuale specifico elabora un’analitica del potere che deve fungere da strumento di liberazione per lotte concrete.
3. Fatte queste necessarie precisazioni, veniamo al nostro testo. Cominciamo col dire che la domanda che concerne il “come” si eserciti il potere non appartiene, in quanto tale, alla filosofia politica intesa nel senso tradizionale, essendo caratteristica generalmente dell’ambito di scienze sociali come la sociologia politica (o la sociologia del potere).
La domanda filosofica per eccellenza verte infatti sul “che cos’è?” il potere, si interroga cioè su quale sia la sua “essenza”, o la sua “sostanza”. La filosofia politica moderna (diciamo, grossomodo, da Hobbes a Kant ‒ passando per Locke e Rousseau) ha cercato di rispondere alla domanda sull’essenza del potere dotandosi di tutta una batteria di concetti che si richiamano a vicenda facendo corpo in un sistema. Secondo Foucault ‒ e questo è il nocciolo della sua critica alla teoria “giuridico-discorsiva” del potere [giuridico-discorsiva proprio perché centrata sul modello della legge] ‒ essa ha cercato di eliminare il fenomeno storico della guerra, della lotta e della dominazione (che invece ha fondato concretamente gli equilibri storici tra i poteri) attraverso una serie di finzioni concettuali: pensiamo al dibattito sullo “stato di natura”, all’idea di un ipotetico “patto” (o “contratto”) stipulato tra gli associati, a quella di un “diritto” capace di fissare i “limiti” del potere, impedendo in questo modo che esso si rovesci in violenza o in cieco dominio [tutti concetti che mascherano la dinamica del potere invece di chiarirla]. In breve, la teoria classica del potere è un dispositivo concettuale autoreferenziale che, in prospettiva storica, ha assunto più o meno consapevolmente il compito di ricoprire e di mascherare il dominio concreto che, sul finire del medioevo e nella prima età moderna, stava volgendo a favore del potere monarchico. Si tratta di un discorso politico funzionale alla nascita e alla stabilizzazione degli apparati della monarchia amministrativa e che troviamo all’origine degli stati moderni. Foucault mostra che si tratta di un vero e proprio diritto sovrano, in quanto viene commissionato e voluto direttamente dal re e dai suoi funzionari. Forzando un po’ i termini, possiamo dire che ci troviamo di fronte a qualcosa come un’ideologia del potere.
Foucault ha sottolineato più volte che la teoria della sovranità ha un effetto inibitore controproducente per chi si trova direttamente coinvolto nelle lotte, perché non ci aiuta a far luce sul funzionamento concreto dei meccanismi di potere. La teoria della sovranità, sostiene Foucault, è una specie di “trappola” per chi si voglia interrogare sul potere in esercizio, perché ci spinge a entrare in una sorta di circolo vizioso che va dal soggetto al soggetto. Si tratta di un vero e proprio “sistema di pensiero” che, una volta accettato, impone una serie di domande tipiche: “chi” esercita il potere? Chi sono i “dominanti” e chi i “dominati”? Quali sono i “limiti” del potere (distinguedo tra una sfera “pubblica” e un ambito “privato”)? Dove comincia la libertà? Attraverso quale “diritto” può fondarsi la resistenza? ecc.
4. La domanda a proposito di “come” si eserciti il potere, è invece una domanda tecnica. Non ci interessa sapere quale “grande narrazione” ricopra o abbia ricoperto l’esercizio effettivo del potere, e nemmeno ci interessa il discorso relativo alla sua genesi ideale nell’ambito di una finzione che può essere quella del contratto o dello stato di natura. Ciò che ci interessa sapere è praticamente, tecnicamente: quali sono i modi concreti di funzionamento del potere? Quali dispositivi, quali meccanismi ne assicurano l’esercizio? E anche, qual è la sua logica interna: in che modo sono razionalizzate le relazioni di potere? Quali strategie e quali tattiche sono state messe e vengono tuttora messe in atto nella nostra società? Si tratta quindi di passare dal piano dei discorsi a quello delle tattiche, delle strategie concrete e delle tecnologie politiche che assicurano il controllo sociale e l’acquiescenza dei dominati.
5. Stando così le cose, cerchiamo innanzitutto di trarre dal nostro testo di riferimento una definizione generale del fenomeno del potere. Che cosa si intende quando si parla di potere? Di che cosa stiamo parlando? Che cosa succede esattamente quando si esercita un potere?
Foucault precisa che: «Il termine “potere” designa le relazioni fra i partner». Non esiste perciò il “Potere” (con la lettera maiuscola), perché non c’è un’essenza intemporale e trans-storica di questo fenomeno che possa valere una volta per tutte. Esistono invece i poteri, irriducibilmente plurali. Il potere non è una “cosa” come le altre. Si tratta di un concetto relazionale. Esistono perciò delle relazioni di potere che sono molteplici ed eterogenee, mobili e reversibili, variabili a seconda dei contesti e all’interno dei singoli campi di esercizio, che sono ambiti regionali, locali, microfisici. E come tali queste relazioni vanno studiate, nella loro singolarità. Foucault dice che:
Ciò che definisce una relazione di potere è un modo di azione che non agisce direttamente e immediatamente sugli altri [… ma] agisce sulle loro azioni: un’azione su un’azione, su azioni attuali, oppure su azioni eventuali, future o presenti.
(Il soggetto e il potere, p. 248)
Perché ci sia una relazione di potere occorrono dunque almeno due soggetti contrapposti. Quello che in un rapporto di potere si cerca di fare è strutturare il campo delle risposte possibili dell’altro. Bisogna modificare il suo “spazio dei possibili”, cioè la sua capacità d’azione, influenzandone la possibilità di scelta. Si tratta, in definitiva, di far fare all’altro quello che noi vogliamo, quello che ci fa più comodo, quello che è nel nostro interesse e ci avvantaggia nelle diverse situazioni della vita, imponendo la nostra volontà non tanto attraverso la violenza o la coercizione (potere, come vedremo, non significa dominio) ma assicurandoci la sua acquiescenza volontaria, ottenendone cioè il consenso spontaneo.
Questo implica che il nostro “altro” non percepisca l’alternativa, la possibilità di cambiare le cose a suo vantaggio, e che manifesti, in qualche modo, il suo riconoscimento per un’ordine che deve apparire immutabile, auto-evidente, naturale, ovvio. Esercitare un potere significa quindi manipolare la percezione dell’alternativa, agendo in maniera indiretta sulla psicologia di chi lo subisce, così da imporre una sorta di “principio di realtà” squilibrato a nostro favore.
Vedremo tra poco a quali dinamiche concrete Foucault si riferisca con questa definizione relazionale e non coercitiva del potere.
6. Per il momento, cerchiamo di focalizzare quali presupposti teorici emergano da questa concezione. Ne possiamo contare (almeno) due. In primo luogo, il concetto di potere così definito presuppone la distinzione fondamentale tra potere e dominio. Secondariamente, presuppone la compatibilità, e direi anche la necessità, del rapporto tra potere e libertà. Teniamo presente che non si tratta di due affermazioni scontate, soprattutto se consideriamo il contesto culturale con cui Foucault più o meno implicitamente si confronta.
Diciamo brevemente qualcosa a questo proposito. Foucault, com’è noto, svolge le sue ricerche sulle relazioni di potere nel corso degli anni ’70. Potremmo perfino arrivare a sostenere che il potere costituisce il tema centrale affrontato durante tutto il corso delle sue lezioni al Collège de France, dal 1970 al 1984. Si tratta di una problematica che in quegli anni, soprattutto sull’onda dell’entusiasmo innescato dagli eventi del maggio ’68, aveva attirato l’attenzione degli intellettuali, sancendo la fortuna di un tipo di analisi ispirato alle ricerche svolte dalla cosiddetta “Scuola di Francoforte”. Ora, la descrizione del potere offerta da Foucault si colloca in antitesi all’analisi del potere proposta dai francofortesi. Non soltanto, come sappiamo, Foucault si oppone frontalmente nella Volontà di sapere (1976) all’ipotesi repressiva messa alla moda dagli scritti di Wilhelm Reich ed Herbert Marcuse in testi come La rivoluzione sessuale ed Eros e civiltà (in cui si sostiene che il potere reprime, e il luogo della libertà viene collocato in un utopico al di là dai suoi meccanismi), ma Foucault protesta anche contro l’idea (presente, ad esempio, in Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer-Adorno) che il potere coincida con la dominazione o con il dominio (Herrschaft).
7. Proprio a proposito del concetto di dominio, in Come si esercita il potere? Foucault è molto chiaro. Egli lo definisce come:
un tipo di azione che riduce l’altro a totale impotenza
(Ivi, p. 253)
una situazione strategica più o meno accettata come vera e consolidata
(Ivi, p. 253)
Il dominio sembra assumere inoltre alcune caratteristiche della coercizione e della violenza, se è vero che:
Un rapporto di violenza agisce su un corpo o sulle cose; esso forza, sottomette, tortura, distrugge, o impedisce ogni possibilità. Il suo polo opposto può essere soltanto la passività;
(Ivi, p. 248)
In un’intervista successiva intitolata L’etica della cura di sé come pratica di libertà, risalente al 1984, Foucault è ancora più preciso [e queste precisazioni costituiscono un indicatore del fatto che Foucault ha continuamente cercato di ri-problematizzare, di rettificare il proprio concetto di potere, chiarendone i limiti e l’efficacia euristica]. Qui egli afferma che gli stati di dominio sono delle situazioni in cui:
le relazioni di potere, invece di essere mobili e di permettere ai diversi partners una strategia che le modifichi, si trovano a essere bloccate e fisse. Quando un individuo o un gruppo sociale arrivano a bloccare un campo di relazioni di potere, a renderle immobili e fisse e a impedire ogni reversibilità di movimento […] ci troviamo di fronte a quello che possiamo definire uno stato di dominio. È certo che in questo stato, le pratiche di libertà non esistono oppure esistono soltanto unilateralmente o sono estremamente confinate e limitate.
(L’etica della cura di sé come pratica di libertà, p. 1530)
In sintesi, afferma Foucault:
bisogna distinguere le relazioni di potere come giochi strategici tra delle libertà […] e gli stati di dominio, che sono quello che ordinariamente chiamiamo potere. E, tra i due, tra i giochi di potere e gli stati di dominio, voi avete le tecnologie governamentali, dando a questo termine un senso molto ampio – che comprende sia la maniera in cui si governa la propria donna, i propri figli, che la maniera in cui si governa un’istituzione. L’analisi di queste tecniche è necessaria, poiché è spesso attraverso questo genere di tecniche che si stabiliscono e si mantengono gli stati di dominio. Nella mia analisi del potere – prosegue Foucault – ci sono questi tre livelli: le relazioni strategiche, le tecniche di governo e gli stati di dominio.
(Ivi, p. 1547)
8. Per quanto riguarda invece la libertà (che, come abbiamo detto, costituisce un presupposto indispensabile all’esercizio delle relazioni di potere) Foucault è categorico:
Il potere viene esercitato soltanto su soggetti liberi, e solo nella misura in cui sono liberi. Con ciò intendiamo individui e soggetti collettivi che hanno davanti un campo di possibilità in cui parecchi modi di condotta, numerose reazioni, diversi tipi di comportamento possano essere realizzati […] la libertà [… è] la condizione di esercizio del potere.
(Il soggetto e il potere, p. 249)
Le relazioni di potere quindi, distinte e separate dagli stati di dominio, sono state definite come un modo per strutturare il campo delle risposte possibili da parte dell’ “altro”, del partner, che dev’essere un soggetto agente conservato in quanto tale, cioè in quanto capace di azione autonoma, libero. L’esercizio della libertà, le pratiche di libertà come le chiama Foucault, possono dunque coincidere con dei processi di soggettivazione che costituiscono una maniera autonoma di condursi all’interno degli spazi lasciati liberi dal potere.
Nella citazione precedente possiamo intravedere la necessità teorica che ha guidato le ultime ricerche di Foucault relative ai processi di soggettivazione nel mondo antico (rese pubbliche durante i corsi al Collège de France tenuti tra il 1980 e il 1984), che sono successivamente confluite nei volumi II e III della Storia della sessualità.
Molto sinteticamente, possiamo affermare che nel mondo greco-romano Foucault ha colto in atto una stilistica della libertà caratterizzata da regole proprie, e non ancora investita dall’obbligo cristiano tendente al sacrificio di sé. Il Cristianesimo infatti ha introdotto nel mondo Occidentale una discontinuità fondamentale: mentre le pratiche di sé greco-romane erano basate sull’idea di un rafforzamento del Sé, di una costruzione cioè della propria soggettività finalizzata a renderci più forti di fronte agli eventi e alle circostanze aleatorie della vita [un modello di soggettivazione simbolizzato dall’immagine dell’atleta (per es. in Seneca) che si allena continuamente per essere all’altezza di ciò che gli può accadere (accedendo a tutto un repertorio di tecnologie del Sé: meditazione sulla morte, sui mali, esercizi spirituali volti al raggiungimento della tranquillità dell’animo, ecc.) e concepisce la vita come una prova], i processi di soggettivazione cristiani introducono un paradigma completamente nuovo: quello della rinuncia a sé stessi, dell’obbedienza all’autorità del direttore di coscienza o del pastore (facendo uso di un bagaglio di tecniche in parte mutuato dal mondo antico, e in parte inedito: pratiche della confessione, penitenze, modelli di umiliazione di sé, ecc.).
Il nostro modo attuale di esercitare il potere deriva secondo Foucault proprio dall’esperienza cristiana, e viene individuato nella modalità “pastorale” del potere. Se esercitare il potere è una questione di governo, la radice genealogica di queste pratiche viene individuata da Foucault proprio nel potere pastorale che è stato inventato all’interno delle prime comunità cristiane, si è istituzionalizzato nel medioevo, prolungandosi, pur con nomi diversi, attraverso le “arti di governo” rinascimentali e la dottrina della “ragion di stato” della prima età moderna. Non è questa la sede per ripercorrere l’indagine storica compiuta da Foucault su questo argomento. Basti segnalare che tutta la genealogia del potere come governo è rintracciabile nel corsi al Collège de France del 1978 (Sicurezza, territorio, popolazione) e del 1979 (Nascita della biopolitica).
Foucault evidentemente, pur senza generalizzare, propende per una pratica di libertà di tipo greco-romano, e sembra implicitamente suggerirla all’uomo contemporaneo.
9. Ma torniamo al punto. Dopo aver definito i concetti di relazioni di potere, stati di dominio e pratiche di libertà, cerchiamo di sintetizzare quanto abbiamo detto fin qui. La concezione generale del potere così come ci viene presentata da Foucault si allontana sia dalla teoria classica del potere inteso come sovranità (che abbiamo visto essere caratteristica della filosofia politica tradizionale), che dalla teoria del potere inteso come repressione così come viene presentato da alcuni esponenti della scuola di Francoforte (Marcuse, ma anche Horkheimer e Adorno).
Il punto discriminante, e che costituisce anche l’originalità della concezione foucaultiana del potere, è il fatto che egli non pensa il potere come puro limite, come un potere del “no”, che vieta e proibisce determinati comportamenti, ma, al contrario, lo pensa come una pratica essenzialemente produttiva. Che “il potere produce” è una delle affermazioni indubbiamente più note di Foucault, affermazione che è stata utilizzata come uno slogan sia dai suoi sostenitori che dai suoi critici. Per evitare fraintendimenti, dobbiamo cercare di essere precisi, e chiederci: il potere produce, ma che cosa? Risposta: produce soggettività.
Per chiarire questo punto, è utile fare riferimento al primo dei due testi redatti nel 1982 da me citati all’inizio, quello che ho temporaneamente accantonato, il testo scritto in inglese e intitolato The Subject and Power. Lì possiamo trovare alcune affermazioni molto interessanti. Foucault dice che:
non è il potere a costituire il tema generale delle mie ricerche, ma il soggetto
(Il soggetto e il potere, p. 237)
E poi specifica:
Questa forma di potere [cioè il governo] viene esercitata sulla vita quotidiana immediata e classifica gli individui in categorie, li marca attraverso la loro propria individualità, li fissa alla loro identità, impone loro una legge di verità che essi devono riconoscere e che gli altri devono riconoscere in loro. È un tipo di potere che trasforma gli individui in soggetti.
(Ivi, p. 241)
Sembra dunque che il potere venga concepito da Foucault come una tecnica per la costruzione dell’identità degli individui. Ed è proprio questa la tesi forte: l’Io, la coscienza, la soggettività, è un prodotto dei meccanismi di potere. Non esiste un soggetto trascendentale, che possa osservare in disparte, o dall’alto, lo svolgersi della dinamica sociale, proprio perché ogni soggetto può essere soltanto un soggetto in situazione, preso direttamente – e fin dalla nascita ‒ all’interno di una serie di dispositivi di potere (la famiglia, la scuola, il posto di lavoro, ecc.) che lo hanno disciplinato, plasmato, normalizzato perfino nella sua interiorità, in ciò che ha di più caratteristico e di più personale. Perciò non si dà un fuori dalle relazioni di potere. Non esiste un “luogo” della libertà, ma si è sempre “dentro”, si è sempre presi all’interno dei dispositivi di potere/sapere. Non esiste un punto di osservazione privilegiato che possa essere paragonato a una prospettiva di “sorvolo”. Conseguentemente, il compito che Foucault si pone, in quanto genealogista critico, è quello di «fare una storia dei differenti modi di soggettivazione» (Ivi, p. 237).
Egli gioca volentieri sull’ambiguità del termine francese “sujet”, che significa tanto individuo soggetto al potere, e dunque “assoggettato”, quanto soggetto padrone di sé, libero di una libertà intesa come autoproduzione della propria soggettività. Nella relazione di assoggettamento/soggettivazione troviamo quindi sia l’imposizione di un’identità che l’autopoiesi. «Ci sono due significiati – dice Foucault – della parola soggetto: soggetto a qualcun altro, attraverso il controllo e la dipendenza, e soggetto vincolato alla sua propria identità dalla coscienza o dalla conoscenza di sé» (Ivi, p. 241).
10. A questo livello possiamo reintrodurre la questione della verità. Per comprendere in che modo avvenga concretamente la produzione della soggettività assoggettate dobbiamo chiarire innanzitutto la configurazione del nesso costituito dalla serie soggettività-verità-potere.
Se il potere non coincide con la violenza e non è nemmeno dell’ordine della comunicazione, ma ha una natura sua propria, qual è questa natura? O meglio, poiché dobbiamo stare attenti a non reintrodurre surrettiziamente la nozione di sostanza, quali sono le forme, storicamente costituite, che rendono possibile l’esercizio di un potere “dolce”, silenzioso, invisibile e inavvertito, attraverso le quali riesce a insinuarsi insidiosamente nell’anima umana e a definire l’agenda delle cose da fare realisticamente possibili? In che modo il potere è in grado di stabilire il “principio di realtà” che regola l’agire degli individui? Come riesce a definire lo spazio dei possibili?
Foucault risponde che è possibile fare tutto questo attraverso il controllo della verità. Ma dobbiamo stare ben attenti a non “ontologizzare” il concetto di verità, perché Foucault, a rigore, non crede nella verità come essenza trascendentale e nemmeno crede che sia possibile scoprire questa verità una volta per tutte, liberandosi definitivamente dalla menzogna o dall’impostura. Al limite, potremmo affermare che a Foucault non interessa per niente la “verità” della verità. L’errore, come abbiamo visto la volta scorsa, è necessario [e il confronto con i testi di Nietzsche ha evidentemente insegnato molto a Foucault su questo aspetto]. Per questo motivo egli ha parlato volentieri dei regimi o degli effetti di verità piuttosto che della verità in quanto tale. [Una critica che potrebbe essere mossa a Foucault riguarda proprio il suo uso del concetto di verità. Più che di verità, si dovrebbe forse parlare di informazione attendibile, istituzionale, certificata, scientifica, di un sapere o di un discorso che ha effetti di verità – ma soprassediamo].
Dunque, governare, esercitare il potere, significa istituire un regime di verità capace di orientare la soggettivazione degli individui. Nell’ambito del corso al Collège de France del 1980 Foucault introduce il concetto di “gouvernement par la vérité” – cioè di “governo attraverso la verità”. Nella lezione del 9 gennaio egli afferma:
Se il governo governa alla verità, esso dovrà governare tanto meno. Più indirizzerà la sua azione alla verità, meno avrà bisogno di governare. […] Se la verità può arrivare a costituire il clima comune ai governanti e ai governati […] deve arrivare un momento in cui l’impero della verità potrà far regnare il suo ordine senza che le decisioni di un’autorità debbano intervenire. […] L’esercizio del potere non sarà nient’altro che l’indicatore della verità […] e al limite non sarà più necessario avere un governo [… perché] governanti e governati saranno in qualche modo co-autori simultanei di una trama che essi giocano in comune.
(Le gouvernement des vivants, lezione del 9 gennaio 1980)
In sintesi, dice Foucault:
Si tratta dell’idea che se gli uomini governano secondo le regole dell’evidenza non saranno più loro a governare, ma le cose stesse.
(Ivi, lezione del 6 febbraio 1980)
In breve, questo significa che l’istituzione di un regime di verità, in apparenza neutrale, obiettivo, scientificamente fondato, fa sì che i soggetti si riconoscano in questa verità, assumendo su di sé (cioè interiorizzando) una verità che permette loro di orientarsi nella pratica. I soggetti assoggettati danno forma alle proprie credenze sulla base di un discorso che ritengono vero, plasmando la propria soggettività sulla base di un principio di realtà socialmente convalidato. La verità obbliga.
Badate bene che non sono in questione soltanto le verità della scienza. Foucault sottolinea che «la scienza non è che uno dei regimi possibili della verità», forse il più importante, ma di certo non l’unico. Egli ha di mira evidentemente il discorso delle cosiddette “scienze umane” (psicologia, psichiatria, medicina, economia, sociologia, antropologia, ecc.) in quanto discorsi dallo statuto epistemologico incerto, che possono essere integrati facilmente (e, di fatto, questo è sempre avvenuto) all’interno dei dispositivi di potere producendo “effetti” che potremmo definire “normalizzanti”. La verità agisce dunque come una norma capace di stabilire dei criteri e degli standard di verità che hanno ricadute importanti sul modo in cui gli individui si riconoscono e si costituiscono come soggetti. E, di conseguenza, tutto ciò condiziona loro obbedienza spontanea, immediata, autoevidente, inavvertita, a un certo regime di potere-sapere che viene vissuto soggettivamente come se fosse naturale, ovvio, scontato, ma che in realtà ci porta verso una chiusura dei possibili limitando la nostra immaginazione politica: non ci permette di vedere che le cose potrebbero anche essere altrimenti.
11. Per concludere, vorrei citare un passaggio attinto dall’ultimo corso pronunciato da Foucault al Collège de France, tenutosi nella primavera del 1984, nel quale ha sintetizzato efficacemente in che cosa sia consistita la sua ricerca e quali debbano esserne considerati gli assi portanti:
Si tratta – dice Foucault – […] dell’analisi delle relazioni complesse tra tre termini distinti, che non possono essere ridotti gli uni agli altri, che non possono essere assorbiti gli uni negli altri, ma i cui rapporti sono costitutivi gli uni degli altri. Questi tre elementi sono: i saperi, studiati nella specificità della loro veridizione; le relazioni di potere, studiate non tanto come un’emanazione di un potere sostanziale e invadente, ma nelle procedure attraverso le quali la condotta degli uomini è governata; ed infine i modi di costituzione del soggetto attraverso le pratiche di sé. È operando questo triplice spostamento teorico – conclude Foucault ‒ dal tema della conoscenza verso quello della veridizione, dal tema della dominazione verso quello della governamentalità, dal tema dell’individuo verso quello delle pratiche di sé – che mi sembra si possa studiare, senza mai ridurli gli uni agli altri, i rapporti tra verità, potere e soggetto.
(Le courage de la vérité, p. 10)
12. In sintesi, possiamo riassumere quanto abbiamo oggi detto in alcuni punti:
1) Il potere non è il male (il male, semmai, è il dominio).
2) Non può esistere una società priva di relazioni di potere: il potere è dappertutto.
3) Dobbiamo essere vigili ed assumere un atteggiamento critico nella consapevolezza che il potere funziona attraverso la verità e fa parte della nostra stessa costituzione di soggetti.
4) Il potere va combattuto sul suo stesso terreno (regola di immanenza). Come? Collegando in maniera inedita soggettività e verità. Dandosi un’altra verità (magari un sapere che funziona come una norma non più sulla vita, ma della vita) e inventando, creando, processi di soggettivazione alternativi.
5) Non si dà creazione assoluta. E’ utopico pensare che la nostra libertà possa essere il risultato di una creazione radicale, priva di rapporti con il tempo in cui viviamo. Le pratiche di libertà sono elaborate a partire dagli schemi che ciascun individuo può reperire nella sua cultura. Così noi oggi, in quanto soggetti “occidentali” possiamo accedere alle tecnologie del sé elaborate all’interno della nostra tradizione, facendo riferimento a processi di soggettivazione di tipo cristiano o greco-romano. In questo modo, è evidente che la libertà risiede nel montaggio, nella scelta consapevole, derivata da una problematizzazione critica, relativa a quali tecniche di sé adottare.
6) Dato che il potere è invalicabile (e inevitabile) l’obbiettivo – minimo, ma realistico – dev’essere quello di “essere governati il meno possibile”.
Filippo Domenicali.
Testo della conferenza tenuta a Genova il 19 dicembre 2012